WHY NOT?

Riepilogo breve del perché quest’anno non abbiamo fatto la classifica di fine anno, non contando il troppo sbatti che ci si mette nel farla.

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Embè.

Senti bene il terriccio sotto i polpastrelli, senti i tendini in tensione. Hai l’orecchio teso mentre il vento ti sfiora i capelli. Cerchi di tenere sotto controllo il battito cardiaco, cerchi di respirare a pieni polmoni e cerchi di isolarti dalle grida del pubblico. I piedi rispondo al suono della partenza senza che tu te ne sia accorto.

Piede destro, piede sinistro, uno avanti ad un altro. Falcata dopo falcata, lo sai che questi sono i cento metri della tua vita, lo sai che questa potrebbe essere la corsa della tua vita, lo sai ma tieni il pensiero in disparte perché devi rimanere calmo e concentrato. Inizi a sentire la fatica ma non gli puoi permettere di farti rallentare anche la fatica è dalla tua parte durante una corsa.

Ecco lì il traguardo, eccola là la fine.

Piede destro, piede sinistro, uno avanti ad un altro. Senti i tuoi avversari vicini, fin troppo vicini. Insisti, spingi, chiedi al tuo corpo e alla tua mente il massimo.

Eccolo lì il risultato.

Senti il nastro del traguardo sfiorarti con arroganza il petto. Sì, sei arrivato per primo. Così si arriva primi nello sport o almeno nell’atletica, nei giochi con palle e palline di solito devi fare dei punti, nella ginnastica artistica come nella musica non si capisce l’assurdità della vittoria, chi vince? Perché? Ma come?

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Lo sconforto di Vanessa Ferrari, ginnasta italiana, nel leggere King Krule solo terzo nel classificone di Pitchfork.

Ogni classifica ha insita nella propria natura una vocazione di oggettività: inanellare uno dietro l’altro diverse cose secondo un criterio guida unificatore, il più chiaro possibile. In campo musicale si passa per categorizzare cose più o meno simili in generi, anche se dagli anni 80 ad oggi man mano questa classificazione per generi è sempre più sbiadita, ancora ad oggi molti artisti e la loro musica vengono mortificati venendo definiti in un genere, un nome che non tiene conto delle influenze, degli spunti di una musica liquida.

(Bitches Drew secondo te è solo jazz? Prince è solo funky? Trap, Indie Rap, gangsta, tutte stronzate Sezionare la musica non è facile come dividere il cibo al supermercato: l’angolo verde bio, quello della marca povera del supermercato, l’angolo dei prodotti ricchi, l’angolo kosher del Carrefour.)

Lasciando stare il genere si passa poi alla ricerca di quegli elementi di valutazione che animino la classifica. In questo caso è impossibile non sporcarsi con la più bieca ma al contempo splendida soggettività e quindi con la morte di una qualsiasi classifica onesta. La soggettività penso che sia l’elemento più ricco per chi voglia scrivere di qualsiasi cosa, scrivere deve riflettere il punto di vista particolare e affascinante di chi si trova dall’altra parte, non la ricerca

L’anno scorso per questo motivo invece del classico classificone di fine anno che qualsiasi tizio ci propina nell’etere avevamo preferito una sorta di riepilogo, uno zibaldone musicale che parlava dell’anno o un album di figurine incompleto, scegliete la metafora che più vi piace.

Le classifiche di fine anno, che assegnano il podio, ci vengono servite solitamente dopo il panettone di Santo Stefano, comunque  sempre prima del cotechino del 31 e vengono preparate nelle  cucine delle riviste di settore. L’obiettivo è quello di elencare i migliori artisti che ci hanno regalato del materiale durante i 12 mesi che si stanno per concludere.

L’unica utilità che gli riconosco è quella che, se ci si pensa bene, tra il compleanno di tua madre e la laurea del tuo amico scemo, ti potresti essere perso anche tu, proprio tu che sei un grande esperto di musica, uno dei tantissimi album usciti. Per il resto il nulla, il più putrido nulla da a chi le legge una classifica musicale.

Noi però non ci vogliamo elevare a critici, assegnando dei numeri  con le nostre palettine stile All Star Game. Abbiamo sempre criticato coloro che collegano alla musica i numeri, i trend di mercato, le rotazioni radiofoniche, i biglietti staccati ed i followers sui social.

(Notiziola carina di fine anno che i più scafati già sanno: la FIMI ha rivisto i criteri di assegnazione della certificazione del disco d’oro. Mi spiace molto per il mio benzinaio con il suo album di debutto e  per i trappers che nascono ogni ora, non avranno nulla da appendere in bagno il prossimo anno).

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BENZinaio’$ GANG. The next big thing for 2k18. #discodoroFIMI

Abbiamo sempre preso i notturni per vedere artisti insieme ad altri 10 persone in locali di periferia, abbiamo conosciuto artisti con pochissimo seguito ma di qualità e siamo stati contenti quando sono stati conosciuti ed accettati da più persone.

Come possiamo, quindi, assegnare dei numeri?

Sarebbe come chiedere ad ogni essere umano di stilare una classifica dei migliori dieci momenti vissuti negli ultimi 12 mesi. Come facciamo ad assegnare degli asettici numeri al disco di King Krule di cui hai parlato mentre un tuo amico si stata laureando? A che posto lo metteresti, invece, l’ultimo di Lamar che hai sentito mentre invocavi il dio della digestione stesa sul divano di tua sorella? Tutte quelle birre bevute parlando della trap, di J Cole, del futuro del rap italiano. Dove potremmo inserire, invece, le delusioni che abbiamo ricevuto? Cosa dovremmo dire di un Fibra che torna sulla scena con i capelli tinti ed i contenuti finti. Chi siamo noi invece per dirvi che le emozioni che ci suscita un pezzo di SZA non siano uguali o paragonabili a quelle della mia collega quando sente Ed Sheraan. Chi saremo noi e chi sareste voi per arrogarvi certe prese di posizioni?

I numeri non sono il giusto mezzo con cui possiamo comunicarvi la gioia nell’andare a cantare “pellaria” tra 4000 persone, l’emozione di sentire un Ghemon rappare di nuovo, l’eccitazione nel cercare l’ultimo di Willie Peyote, la felicità di avere i soldi per comprarsi il biglietto per Frah Quintale o la delusione data da Lana del Ray.

Perché non fate le classifiche?

Perché no. Perché ci siamo rotti il cazzo.

Non facciamo classifiche ma vi auguriamo di metterci l’anima nel 2018 di cercare musica che vi possa sempre emozionare, che vi possa far uscire di casa, che vi possa smuovere dalle vostre bare mentali, che vi faccia muovere dal divano anche se domani lavorate, che vi faccia rompere il salvadanaio o svuotare il conto in banca, che vi faccia desiderare di bere birra sotto cassa, che vi faccia ragionare e capire che: non sono  le classifiche che fanno i dischi, ma è la musica che ha fatto il vostro anno.

A 365 giorni di buona musica.

Diletta Benedetti e Lorenzo Mattei. (®riproduzione riservata)

Contro la musica – “io li disso tutti e non so manco chi sono”

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Vi preferivo cattivi.

Vi preferivo misogini.

Vi preferivo arrabbiati.

Vi preferivo quando cercavate la parole per spiegare ai media il quantitativo delle parolacce.

Vi preferivo senza filtri, come le sigarette di cinquanta anni fa.

Quelle che, dopo il primo tiro, ti senti bruciare dentro fino allo stomaco.

Ed ora?

Ora cosa vi succede?

Ora vi siete messi il filtro come le foto su instagram? Avete applicato sui booklet dei cd le foto dei polmoni incancreniti?

Avete messo un avviso sulle vostre canzoni che la musica, quella vera e quella ben fatta, fa male alla salute?

Non voglio scrivervi che prima eravate meglio, no.

Non vorrei cadere nel banale ho, pur sempre, fatto e sacrificato tanto per la musica.

In questi sette anni mi sono dovuta sentire chiamare “puttana” o “lesbica” solo perché facevo outing dei miei gusti musicali e, capite bene, quanto amore e dedizione possa provare per la musica.

Lo stesso amore e la stessa dedizione mi portano oggi a chiedermi e chiedervi: ci siamo, per caso, persi?

Vi siete persi voi tra le vostre rime che descrivono dei sentimenti stagnanti? Vi siete persi tra le mille produzioni tutte dal gusto un po’ jazz, un po’ elettronico, un po’ “fa tanto scena londinese o berlinese”?

Vi siete persi, forse, nei sold out? Siete ancora arroccati nei vostri camerini mentre vi fate i selfie di gruppo e vi spalleggiate una crew con l’altra neanche fosse una masturbazione di gruppo?

Dove sono, però, le tracce dalle tinte forti?

Dove sono finite le tracce che mentre le ascoltavi capivi che il rapper stesso aveva messo in parole quel sentimento che stavi covando ma non riuscivi ad esprimere?

Quello che mi fa fermare e mi fa ragionare non è tanto la nuova struttura metrica ma il carattere più sbiadito delle emozioni che raccontate.

Parlate di vite che sono scandite da ex che vi rimpiangete, da nottate fintamente da bravi, da paste scotte mangiate con gli amici, dalle donne viste come nemiche. Tutto qua: parlate di una generazione immobile, statica e che guarda al passato come se esistesse solo quello come rappresentazione vera della vostra vita.

Non parlate più del futuro? Non parlate più con rabbia e con determinazione di quando quelli che non vi hanno supportato sapranno apprezzare la vostra musica ?

Dove è finito lo struggle? Lo avete perso tra le lenzuola calde della vostra ex ragazza? Lo avete perso proprio nella fila per andare al bagno di qualche locale che “fa tanto fico frequentare”? Lo avete perso o lo avete solo sedato?

La musica, come il sesso, si fa sempre in due o anche in di più e quindi cari ascoltatori, a voi che è successo?

Non siete più arrabbiati? Nessuna delle vostre cellule prova rabbia? Nessun organo, nemmeno un capello è ribelle? Vi piace, quindi, sentire tendenzialmente lo stesso contenuto su basi musicali diverse? Vi va bene, quindi, che i sottofondi musicali che scegliete per ricordare i vostri grandi amori e le vostre grandi passioni siano fondamentalmente una “canzone buona ma non bella”?

A voi va bene che l’ascolto di un cd sia comparabile con una scopata trovata su tinder che “sì è andata bene ma non è stato granché”?

Non preferireste una canzone che vi faccia fermare, vi faccia pensare e magari vi faccia mettere in dubbio quello che fate e chi siete?

Preferite, quindi, una canzone ed un rap che descrive le emozioni in modo scanzonato ma che non le indaga a fondo e, soprattutto, che non vi porta neanche a farvi fare un’auto analisi?

“Dilè sta musica è generazionale. Pure tu sei così” me lo direte tutti. Mi rinfaccerete anche dei miei ascolti pop e trash pop.

Sì questa musica e questo rap sono generazionali. Sono miei quanto vostri.

Siamo, quindi, quella generazione che tra dieci anni starà ancora a nascondere i propri fallimenti dietro una sigaretta e dando sempre la colpa delle nostre cadute ad altri che non a noi stessi?

Staremo ancora a sperare di vivere una vita che ci piace oppure avremo iniziato a viverla quell’esistenza così appagante?

Cosa saremo tra dieci anni? Saremo ancora il sogno di quello che vorremmo essere oppure avremo iniziato ad essere quello che vogliamo dopo averne preso coscienza?

 

Diletta Benedetti (®riproduzione riservata)

 

 

 

Polaroid – Riflessioni rubate da fotografie di altri.

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Appena laureata la prima domanda che mi sono sentita fare è stata “quindi stai mandando i CV anche a Milano? Roma ormai è una città morta”. Ti ritrovi così a capire che quelli che ce la fanno vanno a Milano, e quelli che vincono la lotteria della vita vanno fuori l’Italia. Poi ci sono quelli che non ce la fanno e rimangono nella caotica, morente, disordinata, trafficata Roma.

Eppure di notte, mentre speri che qualcuno ti chiami per darti un motivo per fare un trasloco al nord, magari anche un motivo retribuito, una parte del tuo cuore pensa sul perché Roma dovrebbe essere lasciata e demonizzata. La confusione di Roma ti ha dato tanto e, quindi, perché ti dovrebbe ora ferire ed abbandonare e tu perché te ne dovresti andare invece di rimanere e dare voce ai sanpietrini e alle vie che ormai conosci a memoria?

Pensi a tutti questi anni in cui sei diventata amica dei bangla del tuo quartiere, a tutte quelle volte in cui a denti stretti hai detto un “tacci tua e de tu madre” ai bus in ritardo, alle serate in piazzetta, alle peroni stappate con gli accendini, ai concerti, a come ti batte forte il cuore quando passi davanti al Colosseo, al ragazzo che ti ha baciato mentre tenevi un drink sovra pagato nella tua mano, a tutte le emozioni che Roma ti sa regalare.

In quelle notti così, senti che il tuo cuore si stringe e ti dispiacerebbe dover mettere tutto nelle scatole ed andartene. Anche le scatole più grandi non possono contenere tutto quello che la città eterna ti dona. Per quelle emozioni le scatole non sono abbastanza profonde, serve la profondità del cuore per contenerle tutte.

“Per i pellegrini nel tempo, la verità è altrove; il vero luogo è sempre a una certa distanza, lontana nel tempo.”

Lo sviluppo dei mezzi di trasporto come l’aereo e dei vari mezzi di comunicazione ha portato al concetto della “morte della distanza”. La distanza fisica è stata, quindi, modificata, ribaltata e scardinata da quegli schemi cognitivi classici. Noi giovani in cerca di un lavoro diventiamo pellegrini, siamo nati pellegrini e diamo maggiore significato alle strade che non alle case. Ci hanno parlato di globalizzazione e della facilità nella ricerca di noi stessi in altri luoghi rispetto a quelli che ci hanno forgiato l’ accento. Le nostre radici, dalla consistenza metallica ormai, si diramano dai nostri paesi natali per accompagnarci nelle affollate strade che percorriamo alla ricerca del nostro io. Il suono stesso delle radici è diventato metallico, sono fredde come il metallo perché ricordano i nostri momenti migliori della giovinezza, i momenti in cui stavamo “pellaria”, i momenti in cui gli oneri della vita erano lontani e noi ci sentivamo ricchi perché avevamo il lusso di elevarci nell’aria come i palloncini rossi.

 

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Ci ritroviamo così, con i tratti del volto ancora non toccati dalle rughe ma con i pesi della vita di un cinquantenne. Ci ritroviamo così a rispondere ad un banale “Che mi dici?” con una scrollata della testa accompagnata da “Lasciamo stà! Solo guai”. Ci ritroviamo a  non saper articolare i nostri sentimenti con la grammatica dell’amore, a lasciare alle emoticons il compito di far arrivare messaggi di affetto, a voler credere che esista qualcuno con cui metter su una famiglia ma allo stesso tempo abbiamo il cuore iniettato di cinismo. Ci ritroviamo a voler sperare di svegliarci e sentire che il dolore è tutto passato, speriamo che il trucco ci coli per lacrime di gioia e non dopo aver sbattuto i portoni.

In un cuore in cui padroneggiano ormai solo i rumori sordi di disillusione e lontananza si innesta il suono del ricordo quando nostra nonna ci chiama, quando la mamma ci chiede se abbiamo mangiato, quando arriva il “pacco da giù”. Si innesta il suono del ricordo di cosa e chi siamo stati, e così lentamente le nostre radici riaffiorano calde e palpitanti. Le stesse radici richiamate da Sorrentino ne “la Grande Bellezza”, le stesse radici che ci siamo trascinati vicino ai trolley. Sono le radici ed il cuore che sono narrati dal duo romano nelle loro dieci istantanee che mi immagino sbiadite ed un po’ spiegazzate dentro ad una scatola di latta riposta sotto un letto.

La cosa che rende particolare il cd è proprio l’attaccamento che i due hanno alla loro città e il modo genuino nel trattarlo. Seppur le loro polaroid parlano di scene di vita quotidiana, Roma è personaggio caratterizzante della narrazione ed è proprio la città eterna che dà quer friccicore in più alle barre metriche. Parlano all’interlocutore a core in mano, senza filtri e dipingono con le rime intrecci di vita degli under 30 nati o adottati dalla capitale italiana. Per quanto mi riguarda l’album oltre a lasciarmi il sorriso sulla bocca perché ritrovo nei loro racconti molte scene della mia vita, mi ha fatto riflettere anche oltre le mie aspettative.

Carl e Franco mi hanno fatto riflettere su di un fatto: forse prima di guardare al nord, forse prima di aggiornare la mia pagina Linkedin, forse prima è meglio chiedersi cosa e chi voler diventare. Solo dopo, forse, è il caso di domandarsi dove la nostra crescita, personale e professionale, può avvenire. Forse ci insegnano, dietro un flow sbiascicato, che Roma seppur morente non è ancora un cadavere destinato alla morgue, non è ancora il momento di dirle addio e di poggiare fiori sulla sua tomba, è forse il momento di capire che noi, nel nostro piccolo o grande, siamo il motore della città, che solo noi la renderemo migliore.

“Mamma mia a sta foto paro malata!” 

“Ammazzo oh, pure io non c’ho na bella cera. Però te ricordi che notte che è stata”

“E certo oh”

“Che famo la buttamo sta foto?”

“Macchè! Questi so ricordi”

Cari cugini nordici, come abbiamo le strade piene di macchine abbiamo i cuori pieni di traffico sentimentale.

 

Diletta Benedetti (®riproduzione riservata)

 

 

With your eyes and without.

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Then I tried

to cry out in agony, and roused myself

from sleep, trembling, my eyes

filled with disconsolate tears.

(Giacomo Leopardi; Poetry and Prose)

 

What does your floor taste like? Our senses sometimes flatten our perception of things. You’ve never wondered what noise makes that flower on your neighbour’s terrace or what could the flavour of your floor be: you know it’s polished, of a nice dark colour, with a shade of light, but it’s very dirty and will be for the next two hours, until the cleaning lady comes, just like every Tuesday. You’ve never wondered what your floor tastes like, but you finally did on a regular Wednesday at 3 A.M.: you were finishing mixing a song with your sound engineer and two other people, and all of a sudden the police shows up and you’re nailed on the floor, your face on the ground. The officer is shouting not to move and starts talking about a search warrant, but your focus is on the bitter, sapid taste of the floor, with a hint of chemical, artifical strawberry flavour, a result of yesterday’s cleaning.

Where were we? I believe the last time I saw J Cole was in Friedrichshain, amidst some shady German hip hop vinyls, I bought it and took it home. The album before 4 your eyez only was a well-fleshed record, full of sounds, of rhymes, of imagery. Basically, I listen to music in two ways, based on the nature of the album: flowing, i.e. I put on a record from start to finish, or syncopated, meaning that, on twelve tracks, I skip half of them. These are good methods to understand how much a record is organic, to understand its identity, its consistency. This affects the evaluation of an album as a whole, and while the first time each song is just a piece of a bigger puzzle, the second time you listen to the album, they’re a singularity, each with their own personal value.

Cole’s records fall under the former listening, for they are rooted in an unifying musical and/or narrative idea. 4 your eyez only finds its beauty in its wholeness: there are very few songs that stand out to represent the entire work. In this case, few songs are not enough to bring out the record’s heterogeneity.

This time the music, unlike Cole’s previous efforts, is not overwhelming: even the two songs released with the documentary preceding the album have a more original sound than those found in the record. This doesn’t mean that said sound is sloppy, on the contrary, the beats are well-crafted. This is a stylistic choice: leaving the music as background, an important one for sure, but still, nothing more than a means to a bigger end: the story.

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The album, quite surprisingly, reached Billboard’s n°1 just after release. The reason this happened can be found in the hype: it wasn’t long before everyone praised it as a masterpiece, probably because of Cole’s persona rather than for the quality of the music itself. This doesn’t mean that Cole’s record deserves criticism, rather than the perception of it should be adjusted, for its essence and its art belong to a personal dimension. This isn’t a record for the masses.

When they bursted in, when we were on the ground, when our face was covered in dust, the idea had already left our heads, it was already recorded. The poetry work was done, it was time to fight over the mix. That night, though, our neighbours had sent us a new track.

Neighbors wasn’t the first song I listened to, it was the first song I understood. Much was written about it, the fact that the SWAT raiding Sheltuh on 18 March 2016 was a true story caught the public’s attention, just like when you watch Fargo and you can’t help but to be drawn by the “Inspired by true events” disclaimer. It’s impossible to see the album’s value without understanding its stories, its words.

If you’re listening to 4 Your Eyez Only, you’re also reading Jermaine’s novel, J Cole’s alter ego: it tells the story of his young friend (and recently father to a baby girl) James, killed for dealing drugs. Just before his death, with the feeling that his time had come, James gave to Jermaine a tape, his legacy to his daughter, Nina. The record tells James’ story in ten chapters, punctuated by Jermaine and Cole’s thoughts.

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The album begins with a Hemingway reference in the title and the sound of a tape playing, leading to James’ bold youth (Immortal), his first encounter in a club with the future mother of his child and the challenges to have her (Deja Vu). Ville Mentality is the fourth, and maybe, most iconic track: J Cole’s ambition intertwines with his wish to leave James’ neighbourhood. This song also includes a strange audio track of a little girl from Cole’s neighbourhood, Fayetteville, to show how both absurd and ordinary this reality is.

“My dad, he died—he got shot cause his friend set him up. And I didn’t go to his funeral—and sometimes when I’m in my room, I get mad at my momma when she mean to me. And she—And she say, clean up—I say/I get mad, I slam my door and go in my room—And then, I get mad and I say, “I wish my dad was here”

She is mine is a two-act ode, dedicated to James and the two women of his life: Part 1 is about his future wife, Part 2 about baby Nina. Between these two love songs, Jermaine hears about the shooting that led to James’ death, leaving him forever changed.

Then there are two set-up songs for the long ending: Neighbors deals with the race issue in America, while Foldin Clothes mixes James and Jermaine’s views on life, with the vows to their own wives, their hopes, their concerns. 4 your eyez only is the 8-minute title track closing the record, it’s James’ testament to his daughter, but also Jermaine’s exit, after revaling himself as the messenger to Nina.

“Nah, your daddy was a real nigga, not ‘cause he was hard
Not because he lived a life of crime and sat behind some bars
Not because he screamed, “Fuck the law”
Although that was true
Your daddy was a real nigga cause he loved you
For your eyes only”

When you look at it as an outsider, Cole’s record may seem hermetic and personal, but it actually has an ecumenical message for an entire community. The thing is, this message can be read only through his eyes.

Lorenzo Mattei (®copyright)

 

Thank you for the service.

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Murry Bergtram High School. In the 1970s, New York is run by Wall Street and its green bills, symbol of high society and the wealthy, but also, in a completely different scenario, it is run by gangs that easily took over the most desperate and poor neighbourhoods. This social and economical gap, that led to racial conflicts in the following years, was the landscape where Hip Hop culture moved its first steps. Public Enemy, Mobb Deep and DMX among others, used verbal violence and raw sounds to describe the most oppressed part of NY society; for the first time, expressions like “Fight The Power” had found their place in that forsaken world. Murry Bergtram School simply couldn’t be a part of this divided and irreconciliable system. Unless…

It’s in this “quiet” background that three boys meet: Malik Taylor, Jonathan Davis and Alì Shaheed Muhammad. Accompanied by their long-time friend Jarobi and by their “classmates” (the soon-to-be De La Soul and Jungle Brothers), they began an actual musical “quest”, rooted in jazz and soul music, which will lead them to turn the Hip Hop world of the time (still at its early stages) upside down. Long story short, these three friends became an actual “Tribe” on a “Quest”…

And so “A Tribe Called Quest” was born, one of the most controversial and successful bands that have ever walked on the Hip Hop scene. Their controversy was due to their musical contamination, developed in a genre which is usually unresponsive to other sounds, particularly in the past, when the only stylistic shifts depended on the fundamental urge of leaving a mark on “their” society. There is little room for ego-stroking (although it still remains an important part of their music), since the main goal is to express a positive message through two innovative key-concepts: self-improvement and self-teaching. Spontaneity is perhaps the distinctive trait of the Tribe, so distinctive that they decided, in order to keep looking for fresh inspiration, to create a personal, portable studio to honor their peculiar creative process. What we have just described appears to be a solid, indestructible mechanism, at least until creative differences showed up within the group. This all led to a black vortex from which they never escaped: the interlocking exchanges between the three disappeared, every track seemed written by three solo artists rather than an actual band, and in 1998, after many years of smashing success, the group split up. The journey appears to be over, until…

Until the heart condition that Phife Dawg had suffered from for years got worse, leading to the loss of one of the most beautiful and creative souls in the entire American Hip Hop scene. Life is strange, everything seems so definitive, unchangeable, at least until a little thing like this erases years of abscence (only in music, though. To be fair, the three of them were always on good terms). The idea of a last gift to the fans had always been in the air, since they gathered in 2011 to make a documentary about the band’s history. And yet, the void between Q-Tip, Phife Dawg and Alì seemed too big even at the time. This was the reason why the record’s release had been delayed until Phife’s tragic departure. Afterwards, Q-Tip and Alì worked hard to speed the release up, as if they had felt the urge to bid a last farewell to their old friend, to thank the millions of people that have listened to their work and allowed this beautiful story to exist. This is the story of “We Got It From Here, Thank You 4 Your Service”, A Tribe Called Quest’s long requiem.

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Overall, the album sounds like the band’s late work, when it seemed like the three friends were not communicating, at least until you listen to “Dis-Generation”. This track is the link between the band’s core, based on the crazy exchanges among the three, and what the trio is today, i.e. three soloists, each with his own story to tell. “Dis-Generation” is their legacy to the “good scene”, to Kendrick Lamar, Earl Swimsuit, Joey Bada$$, Joe Cole; the job of these rappers will be to keep the culture alive, to guard the “flow”, the soul and spirit of the tribe. It’s easy to tell how strong is the need to describe an ever-developing musical reality, which is on the verge of forgetting the lessons given by these great masters. It took decades for the tribe to convey fundamental values, to shift the focus of Hip Hop from ego-stroking to self-teaching, and the squandering of such wealth is a clear and present danger. This is precisely why those four rappers need to remind everyone of these particular teachings.

This is, by far, their most political album. The U.S. political landscape has changed over the past few years, the ghost of Trump is now a reailty and everyone has to deal with the consequences. For years, Trump has been the symbol of a world made of dollars, stars, trifles estranged from the reality most people live in. Also, since the announcement that he would run for office, the majority of his campaign has been centered on attacking other cultures, Puerto Ricans, Mexicans, Muslims living in the American suburbs, the same suburbs where Donald’s green bills don’t shine. “The Space Program” and “We The People…” address them, being perfect portraits of all the risks these people are going to face. The message expressed by these songs is, ironically, to leave, not to be choked by a place where there will be no air left for them, only dark(er) times.

Besides the sounds, which are simply amazing, Q-Tip’s unmistakable mark can be found in the many featurings throughout this record; this has always been the main difference between Q-Tip and Phife Dawg. The former is more “abstract”, more poetic, the latter more “street”, more aggressive. This record features Kendrick Lamar, Talib Kweli, Andre 3000, Busta Rhymes, Anderson.Paak and Elton John, great musicians who gave their personal contribution to this great album.

To conclude, A Tribe Called Quest’s last goodbye leaves an important message for the listener/reader: to pay utmost attention and, in a way, to guard the legacy these three pioneers have left to Hip Hop. They have to try to focus on what is being communicated through Hip Hop, which is often the wrong message. Thousands and thousands of words and the generous space I’ve been given here would still not be enough to express how much the Tribe has meant to this world. I imagine them in Queens, sitting on a bench, smoking a few joints while they observe a world that is slowly self-destructing; I wave them from afar, quietly, as if I’m leaving an unbreakable legacy.

Gianluca Tafuri (®copyright)

Con i tuoi occhi e anche senz’occhi.

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Allor d’angoscia

Gridar di volendo, e spasimando, e pregne

Di consolato pianto le pupille

Dal sonno mi disciolsi

(Giacomo Leopardi; Poesie e prose)

 

Che sapore ha il tuo pavimento? La percezione che abbiamo delle cose è a volte appiattita su qualcuno dei nostri sensi. Non ti sei mai chiesto che rumore faccia quel fiore nel terrazzo della tua vicina o di cosa sappia il tuo pavimento: sai che è lucido, di un bel bruno con delle venature più chiare, il martedì prima che arrivi la donna delle pulizie di certo è più sporco di quanto lo sarà due ore dopo. Non ti sei mai chiesto di cosa sappia il tuo pavimento fino a che alle tre di notte di un innocuo mercoledì, mentre stai finendo il lavoro di mixaggio di un brano insieme al tuo fonico e altri due, non  entra la polizia, vieni immobilizzato e messo prono con la faccia a terra. Mentre l’agente ti urla meccanicamente di stare fermo, intervallando le grida a riletture del mandato di perquisizione, la tua bocca è inevitabilmente a contatto con il tuo sapido e amaro pavimento a volte intervallato con punte di fragola innaturale e chimica, residui delle pulizie di ieri.

Dove ci eravamo lasciati? Io personalmente l’ultima volta che ho visto J Cole era a Friedrichshain, stava in mezzo a dei dubbi vinili hip hop tedeschi, l’ho preso e me lo sono portato a casa. L’album che ha preceduto 4 your eyez only era un disco corposo, era pieno come suono, come rime, come immaginario. Principalmente ho due tipi di ascolto: il flusso, ossia metto su il disco solo per sentirmelo tutto o quasi tutto, e il sincopato, su 12 canzoni ne skippo la metà. Queste modalità di ascolto sono dettate principalmente dalla natura dell’opera, sono dei buoni metodi per capire l’organicità di un disco, la sua identità, nel senso di essere “uno” e non solo un insieme disorganico di brani. Questa divagazione inerisce al modo di valutare un album in toto e non i suoi singoli pezzi, che nel primo ascolto trovano comunque una giustificazione nell’insieme, mentre nel secondo trovano la loro forza solo in loro stessi.

I lavori di Cole rientrano nella prima categoria di cui disquisivamo sopra, sono lavori molto studiati nell’idea unificatrice, che sia essa musicale o di storytelling. 4 your eyez only trova la sua bellezza nella sua interezza, poche sono le canzoni che spiccano sopra le altre e simbolizzano l’intero lavoro, i pochi brani da soli non esaltano, sono parziali e non raccontano l’eterogenicità del album.

Il lato musicale di quest’ultimo lavoro non esalta come nei lavori precedenti (anche i due inediti contenuti nel documentario che a sorpresa ha preceduto il disco sono più originali come sound). Questo non vuol dire che non sia stato adeguatamente curato, perché le basi sono fatte con minuzia, la ratio è in una scelta a monte: dare più valore alla storia e lasciare alla musica un ruolo ancillare, di accompagnamento, non affatto però secondario, bensì funzionale.

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E’ sorprendente come questo disco appena uscito sia arrivato alla numero 1 della Billboar. Il motivo per cui è andato subito così alto non lo si trova nel disco in sé, è stato velocemente catalogato alla voce capolavoro più per l’hype che si è creato intorno al personaggio di Cole che per la sostanza del suo lavoro. Questo non vuol dire bocciare il disco, ma ridimensionarlo poiché nella sua dimensione intimistica questo lavoro trova la sua essenza e la sua arte, non è stato fatto per le folle ne tantomeno per le fole.

Quando sono entrati, quando eravamo a terra, quando la polvere era sul nostro viso, l’idea era già fuori dalla nostra testa, era già quasi tutta sul nastro. Il lavoro da poeti era finito, eravamo passati a litigare sul tavolo del mix. Quella sera però i nostri vicini ci hanno mandato un nuovo pezzo del disco.

Neighbors non è stata la prima canzone che ho ascoltato, è stata la prima canzone che ho capito. Molto si è scritto a riguardo,  il fatto che l’irruzione della SWAT allo Sheltuh il 18 marzo 2016 fosse una storia vera ha catturato l’attenzione, come quando vedi Fargo e appare il disclamer “ispired by true events”, inevitabilmente sei ingenuamente attratto. Non si può dar valore a questo disco senza comprenderne le storie e le parole.

Ascoltando 4 your eyez only si legge il romanzo raccontato da Jermaine, un alterego di J Cole, che tramanda la memoria del suo giovane amico James, da poco padre di una bambina, ucciso per motivi di spaccio. Poco prima di morire, con il presentimento della sua fine, consegna a Jermaine una cassetta con il suo lascito per la figlia Nina. Il disco va quindi a cantare in 10 capitoli la storia di James intervallandosi ai pensieri di Jermaine e di Cole stesso.

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L’album si apre con una citazione di Hemingway nel titolo ed il rumore di una musicasetta, continua raccontando la sfrontata giovinezza di James (Immortal), l’incontro con la madre della sua futura bambina in un club e la sfida per averla (Deja Vu). La quarta traccia è Ville Mentality, forse il brano più iconico: la voglia di emergere di J Cole si mischia alla voglia di scappare dal suo quartiere di James,un particolare strano che ci svela l’assurdità della realtà e la quotidianità del racconto è l’intermezzo audio di una bambina, realmente registrato nel quartiere di Cole, Fayetteville.

“My dad, he died—he got shot cause his friend set him up. And I didn’t go to his funeral—and sometimes when I’m in my room, I get mad at my momma when she mean to me. And she—And she say, clean up—I say/ I get mad, I slam my door and go in my room—And then, I get mad and I say, “I wish my dad was here”

She is mine è un ode che si svolge in due atti, dedicate da James alle sue due donne, nella part 1 la future moglie e nella part 2 la neonata Nina. In mezzo alle due canzoni d’amore vi è il cambiamento di Jermaine con la notizia alla tv della sparatoria in cui James muore.

Seguono due tracce preparatorie per il lungo finale: Neighbors parla della questione razziale in America, mentre Foldin Clothes è un brano in cui le considerazioni sulla vita di James si confondono con quelle di Jermaine, con le promesse d’amore alle rispettive mogli, con le loro speranze, con le loro irrequietudini. 4 your eyez only è la title track di 8 minuti che chiude l’album, è il testamento in prima persona di James alla figlia, è l’uscita di scena di Jermaine che svela il suo ruolo di messaggero per Nina.

“Nah, your daddy was a real nigga, not ‘cause he was hard
Not because he lived a life of crime and sat behind some bars
Not because he screamed, “Fuck the law”
Although that was true
Your daddy was a real nigga cause he loved you
For your eyes only”

Da fuori quello di Cole può sembrare un disco intimista ed ermetico, invece dentro si scopre un messaggio ecumenico, rivolto ad un’intera comunità, che si può leggere però soltanto attraverso i suoi occhi.

Lorenzo Mattei (®riproduzione riservata)

 

Thank you for the service.

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Murry Bergtram High School. E’ la New York di metà anni settanta, da un lato sapientemente gestita dai verdi dollari di Wall Street, simbolo di una società benestante e sfarzosa, e dall’altro dominata dalle gangs, bande che facilmente prendevano il dominio in ambienti pervasi dalla più totale e desolante disperazione, totalmente distanti dallo scenario precedentemente analizzato. Questo distacco tra i diversi strati sociali porterà negli anni successivi a violenti scontri razziali, ed è proprio in questo scenario che fermentano i primi germi della cultura Hip Hop. Violenza verbale, suoni crudi, questi sono gli ingredienti utilizzati dai vari Public Enemy, Mobb Deep, DMX per descrivere la situazione della parte più disagiata della società newyorkese; per la prima volta termini come “Fight the power” si fanno largo in modo clamoroso in quel mondo dimenticato. Come può inserirsi in uno scenario cosi diviso e inconciliabile la Murry Bergtram School? Semplice, non può. A meno che…

In quel contesto relativamente “tranquillo” si incontrano tre ragazzi, Malik Taylor, Jonathan Davis e Alì Shaheed Muhammad. I tre, accompagnati dallo storico amico Jarobi e dai “vicini di banco” (i futuri De La Soul e Jungle Brothers), iniziano una vera e propria “ricerca” musicale, basata principalmente sul jazz e sul soul, che li porterà a stravolgere completamente quello che fino ad allora era il mondo Hip Hop (anche in una situazione prevalentemente embrionale). Insomma, i tre amici diventano una vera e propria “tribù” in “cerca”…

Così nascono gli “A Tribe Called Quest”, uno dei gruppi più controversi e al tempo stesso di successo che abbiano mai popolato la scena Hip Hop. Controversi perché si fanno spazio in un ambiente in cui c’era poco spazio per la contaminazione (seppur vicinissima) con altri generi, in un’epoca in cui la ricerca stilistica era pressochè inesistente oppure completamente soggiogata dalla necessità fortissima di lasciare un messaggio alla “loro” società. C’è poco spazio per l’autocelebrazione di se (seppure mantiene un significato importante nella loro musica), si cerca di inserire due nuovi concetti fondamentali per trasmettere un buon messaggio: automiglioramento e autoinsegnamento. La spontaneità è forse il tratto distintivo più importante della “Tribe”, tanto da desiderare la costruzione di uno studio portatile per rendere onore al loro particolarissimo processo creativo, che necessitava di stimoli continui. Quello appena descritto sembra un meccanismo fortissimo, indistruttibile , almeno fino a che non subentrano differenze inconciliabili tra le varie componenti del gruppo. Tutto ciò porta ad un vortice nero da cui il gruppo non riuscirà più a rialzarsi: gli scambi continui, gli incastri tra i tre scompaiono definitivamente, ogni pezzo sembra composto da tre solisti più che da un gruppo. Il giocattolo si è rotto, e nel 1998 arriva la scissione definitiva dopo anni di grandissimi successi, e tale decisione sembra definitiva, fino a che..

Fino a che i problemi cardiaci che affliggono da anni Phife Dawg decidono di farsi più insistenti, e ci sottraggono una delle anime più belle e creative dell’intero scenario Hip Hop americano. La vita è strana, tutto sembra cosi definitivo, immutabile, e poi basta cosi poco per cancellare anni di assenza (anche se solo musicale, i tre sono sempre stati in buoni rapporti). L’idea di consegnare un ultimo lascito ai fan c’era da diverso da tempo, da quel 2011 in cui i tre si riunirono per dare vita al documentario sulla storia del gruppo. Però anche in quell’occasione, sembrava incolmabile la distanza tra Q-Tip, Phife Dawg e Ali’, motivo per cui i lavori di stesura del disco ritardarono fino alla tragica data della scomparsa di Phife. Questo avvenimento accelera l’uscita del disco, come se Q-Tip e Alì sentissero la fortissima esigenza di lasciare un ultimo saluto al loro storico amico e di ringraziare definitivamente i milioni di ascoltatori che hanno permesso la riuscita di una bellissima storia. Nasce cosi “We got it from here, thank you 4 your service”, un lunghissimo addio degli “A tribe called Quest”.

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L’album in generale somiglia più all’ultimo periodo del gruppo, quello per intenderci in cui sembrava esserci poca comunicazione tra i tre, fino a “Dis-Generation”. Il pezzo in questione è l’anello di congiunzione tra l’essenza del gruppo, fatta di scambi pazzissimi tra i tre, e quello è oggi il trio, ossia un gruppo composto da tre solisti, ognuno con una storia differente. “Dis-Generation” è il lascito alla “scena buona”, ai vari Kendrick Lamar, Earl Swimsuit, Joey Bada$$, Joe Cole; mantenere viva questa cultura, essere i destinatari del “flow”, dell’anima e dello spirito della tribe, questo deve essere il compito dei rapper in questione. Si sente dunque molto forte l’esigenza di raccontare una realtà musicale in continua evoluzione, che però rischia di dimenticare le lezioni di questi validissimi maestri. La tribe ha impiegato decenni per traslare il fulcro dell’hip hop dall’autocelebrazione all’autoinsegnamento, a trasmettere dei valori fondamentali. Il rischio che tale patrimonio venga dilapidato è molto alto, il compito di quei quattro rapper è di ricordare a tutti determinati insegnamenti.

In assoluto, questo è il disco più politicizzato in assoluto. La situazione degli Stati Uniti è cambiata in questi ultimi anni, lo spettro di Trump è divenuto realtà, con tutto ciò che ne consegue. Trump ha rappresentato per anni quel mondo fatto di dollari, di star, di minuziosità in cui la gente che vive determinate situazioni di disagio non può rispecchiarsi. Non solo, una volta candidatosi presidente, non pochi sono stati i messaggi di chiusura verso le altre civiltà, quei portoricani, messicani, musulmani che da decenni popolano le periferie americani, quelle dove non riflette il verde dei dollaroni del Donald. Proprio a queste persone sono dedicati “The Space Program” e “We the people..”, pezzi che rappresentano perfettamente tutti i rischi cui andranno in contro queste popolazioni. L’invito paradossale che ne viene fuori da questi due pezzi è quello di andarsene, di non farsi soffocare in un posto in cui non ci sarà più aria per queste persone, ma solo giorni (ancora più) bui.

Oltre che nella straordinaria bellezza dei suoni, il marchio indissolubile di Q-Tip si riconosce altresì nella grande quantità di gente chiamata a collaborare a questo disco; questo in assoluto è il tratto che ha sempre distinto Q-Tip da Phife Dawg. Il primo da sempre più “astratto”, più poetico, il secondo più “street”, più aggressivo. Tra le collaborazioni del disco troviamo Kendrick Lamar, Talib Kweli, Andre 3000, Busta Rhymes, Anderson.Paak, Elton John, tutti artisti di grandissimo spessore che hanno contribuito alla grandezza dell’album.

In conclusione, l’ultimo saluto della “A Tribe Called Quest” lascia un messaggio importantissimo che non deve sfuggire in nessun modo all’ascoltatore/lettore: fare grandissima attenzione, custodire in un certo senso l’eredità che questi tre pionieri lasciano al mondo dell’Hip Hop, cercare di mantenere il punto sui messaggi che vengono lanciati, che molto spesso risultano essere troppo sbagliati. Ci vorrebbero migliaia di righe per descrivere ciò che i tre hanno rappresentato per questo ambiente, non basterebbe il generoso spazio qui concessomi. Me li immagino seduti sulle panchine del Queens, tra una porra e l’altra mentre osservano un mondo che va autodistruggendosi; li saluto da lontano, senza far troppo rumore, come a lasciare intatta un’eredità indistruttibile.

Gianluca Tafuri  (®riproduzione riservata)

 

 

 

 

Riepilogo

2016

Lo facciamo? Facciamolo! Il 2016 sta finendo e bisogna riordinare la musica uscita quest’anno. Per voi, ma anche per noi, ecco quindi il listone a.k.a. riepilogo dell’anno: abbiamo deciso di non fare una classifica ma di usare una formula simile ai Grammy mettendo però anche delle categorie molto più soggettive e fantasiose. Buona lettura.

•MVP 

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 Da gennaio alla fine dell’anno quello col microfono qui in su è di certo colui il quale  ha segnato tutto il 2016 sia sotto un punto di vista qualitativo, definendo il suo stile in modo riconoscibile, che quantitativo, Malibu è uno dei dischi in assoluto più belli ma anche Yes lawd! uscito mesi dopo è un lavoro impeccabile. Forse qualcuno avrebbe voluto Kanye perché TLOP è un bel disco e le yeezy ci fanno impazzire, o Chance the rapper il cui album (difficile chiamarlo ancora mixtape) è stato battezzato sia da Obama che da Bey. Ma noi abbiamo scelto Anderson .paak per il modo in cui  ha dominato l’anno,  a gli occhi di alcuni monotono e dopo un po’ prevedibile, ma per noi invece è stato iconico e più prenderà la polvere, più lo ricorderemo come l’immagine di quest’anno. (Tribulations and life of Anderson .Paak)

•MIGLIOR PRODUCER

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Kaytranada è uscito con un album e un mixtape quest’anno, ha avuto molte partecipazioni con altri artisti (vedi i BADBADNOTGOOD) e qualche remix di fuoco. Il 2016 è stato l’anno del suo debutto ufficiale e della definitiva consacrazione, e un riconoscimento, qui non presente, alla miglior canzone dell’anno avrebbe dovuto senz’altro tener conto di sue produzioni come Lite Spots. Il 2016 è stato solo l’inizio.

•#discoitalianochecièpiaciutodipiù

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Questa categoria è un po’ strana perché non va all’album migliore in assoluto ma a quello che per vari motivi ci ha più colpito e impressionato. Quest’anno lo diamo a Luchè con Malammore, un disco anomalo per la scena italiana, fresco e moderno, gli influssi della sua residenza londinese si percepiscono appieno, ma tutto questo è coordinato con l’identità partenopea del nostro Luchino. Ciao #facciaverde.

•MIGLIOR ALBUM POSTUMO 

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Questo è stato forse l’anno più triste per la musica, fin dall’inizio molti nomi illustri ci hanno lasciato, per ultimo George Michael pochi giorni fa. Questa categoria va a premiare quei dischi usciti quest’anno che hanno preceduto di poco la dipartita dei loro autori e che rappresentano parte del lascito, del testamento artistico del loro genio. Blackstar di Bowie per completezza e per  supera di poco Leonard Cohen, il cui singolo You want it darker (omonimo dell’album) è già un classico. Menzione particolare per l’ennesimo disco postumo di J Dilla, uno dei punti di riferimento di questa rivista: il lavoro di Madlib sulla library personale di Jay Dee ci ha regalato un disco pregevole che mantiene ancora l’impronta sonora classica di Jay, mai obsoleta negli anni.

•MIGLIOR ALBUM

C’è davvero bisogno di dire che uno degli album che ha venduto di più in questo funesto 2016 sia anche il migliore in circolazione? C’è davvero altro da aggiungere riguardo alla incazzatissima copertina? E che bisogna dire di una canzone come ‘Sorry’ che sputtana con invereconda sfacciataggine quell’adultero di suo marito (Jay-Z)? Vogliamo parlare della pomposissima ‘Formation’ che se ti parte in macchina, nella peggiore (o migliore) delle ipotesi devi accostare e scendere per ballarla o sporgerti dal finestrino come fa lei nel video? Chi glielo dice che The Weeknd, “prezzemolino” Kendrick Lamar e mister “woo!”-Blake è un rischio averli tutti nello stesso album? N-e-s-s-u-n-o. Nessuno può dirle nulla; lei, Beyoncé, se l’è costruito bello resistente quel piedistallo e quest’anno ce ne siamo accorti definitivamente. ” ‘Cos I slay”

•MIGLIOR ALBUM TRISTE

Nella vita, durante un falò, in macchina con gli amici, in cameretta o mentre si passeggia, c’è sempre quel momento: quello della canzone triste. Chi è senza peccato scagli la prima pietra o il suoni il primo accordo minore! E se Ed Sheeran è da un po’ che effettivamente non pubblica ballate, se nemmeno i Passenger sono riusciti a sorprendervi con il loro ultimo album, ecco che spunta, sul finire di settembre (giusto per ricordarci che l’estate e la spensieratezza stanno finendo..), il nuovo e atteso album di Bon Iver. Questa volta Justin Vernon non solo ci regala un lavoro di squisita (dis-)omogeneità sonora, tanto apprezzata da molti (vedi: me) quanto detestata da chi si aspettava un altro album à la For Emma, ma decide di usare la penna per svenarci con inaudita facilità. E poco importa se i testi delle volte ci sfuggono nel loro significato -mai così rarefatto come in questo album-; quando si fa partire “8(circle)”nella riproduzione casuale, non puoi evitarla. Così abbassi gli occhi e pensi ancora una volta a quando lei ti disse che…

•MIGLIOR ALBUM INCOMPRESO

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Non sarà stato di certo l’album più venduto dell’anno ma ANTi di Rihanna è sicuramente stato l’album più incompreso. Bisogna arrenderci al fatto che per la prima volta nella sua carriera la signorina Fenty non abbia sfornato un album-serbatoio di singoli. E qui casca l’asino! Tutti si aspettavano qualcosa di bello acchiappone, da twerk molesto nella dancefloor. Qualche furbacchiona si aspettava pure di trovare Rihanna in copertina, nuda nuda, e magari di copiarle anche il taglio di capelli. E invece no; di acchiappone c’è ben poco, di twerk molesto c’è “solo” la ruffiana Work (che tutti criticano ma che tutti ballano cercando un Drake a cui appoggiarsi o una Rihanna a cui strusciarsi) e in copertina non c’è nemmeno lei! Paradossale per una che finora ha fatto della sua immagine la sua carta migliore. E invece questa volta dobbiamo ricrederci perché oltre a invertire la rotta, la sig.na Fenty ha anche cambiato suoni, stile e ha maturato una voce niente male. Rihanna non ci sei dispiaciuta affatto e voi siete ancora in tempo per ricredervi.

•MIGLIOR RITORNO

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Se volete capire materialmente quanto tempo è passato dall’ultimo disco degli A Tribe Called Quest basta entrare nel 3° del vostro ex liceo e vedere un ragazzo qualsiasi, 18 anni sono tanti e dopo la morte di Phife era ormai insperato un nuovo disco. We Got It from Here… Thank You 4 Your Service non sarà di sicuro un album sperimentale, forse a tratti nostalgico, essendo aggrappato fortemente al suono classico della band, ma l’uscita di nuovi pezzi come We the people o Disgeneration è una fortuna per tutti e non solo per i fan di lunga data, una sorta di auto celebrazione ma anche un battesimo per chi deve portare avanti la legacy della Tribe. A gennaio esce la recensione.

•MIGLIOR ALBUM RAP 

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Per quanto riguarda il miglior album rap dell’annata, in vetta alle nostre preferenze c’è sicuramente Blank Face LP di SchoolboyQ. Quest’album rappresenta una vera e propria resurrezione per l’artista del Queens, dopo l’enorme successo di “Oxymoron”, c’era l’intenzione di lasciare definitivamente il mondo del rap. Fortunatamente ciò non è avvenuto, e due anni dopo ci troviamo a discutere di Blank Face come un lavoro più complesso, meno sperimentale e più “tradizionale” rispetto al precedente, ma non per questo meno qualitativamente valido. Tra gli altri album HipHop impossibile non citare l’exploit di Skepta con Konniciwa, album che probabilmente apre definitivamente le porte ad una nuova stagione per il rap mondiale, quella del Grime, e Untitled Unmastered di Kendrick Lamar, dove vengono ripresi alcuni pezzi originariamente registrati per il secolare To pimp a butterfly.

•MIGLIOR ALBUM R’N’B

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Ragazzi cari, non potevamo che far vincere lui. Gli ultimi anni sono stati una sorta di rinascimento per l’R’n’B dopo l’apice e il crollo di inizio millennio. Quest’anno sono usciti dischi validissimi: Freetown Sound di Blood Orange, It is di JMSN, In my mind di Bj the chicago Kid. Tutti lavori eccellenti, ben curati e in alcuni aspetti sperimentali e di avanguardia, ma cari miei l’attesa e la gloria è tutta per lui. Blond(e) di Frank Ocean era l’album che attendevamo, forse al primo impatto troppo criptico ma si percepisce il suo carattere messianico e titanico. Frank aveva l’enorme difficolta di divincolarsi dall’eredità di Channel Orange e di tutte le aspettative e le responsabilità, molte volte distorte, che si sono accumulate sulle sue spalle. Solo il tempo ci farà apprezzare ancor di più questa perla nera.

•MIGLIOR ALBUM JAZZ

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Consci di possibili smentite da chi ne sa di più, abbiamo voluto premiare due dischi ibridi del genere quali sono Velvet Portraits di Terrace Martin, che ha partecipato anche nell’ex di Lamar uscito quest’anno, e IV dei BADBADNOTGOOD. Entrambi sono dischi che non hanno paura di mescolarsi con altri generi con risultati sperimentali molto gradevoli, però in una scelta nella categoria per un inezia preferiamo il lavoro della band canadese, molto più strumentale rispetto al lavoro di Martin e più aderente al genere, poi se potete dategli un’ occhiata dal vivo ai ragazzi che sono bramini. (Se non avete ancora letto l’articolo su Velvet Portraits cliccate qui.)

RIVELAZIONE ITALIANA 

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Questo 2016 verrà ricordato anche per l’incursione definitiva (soprattutto in Italia con il solito ritardo, in America questo discorso va avanti già da tempo) della trap nelle tonalità più classiche del mondo Hip Hop. Sfera Ebbasta e Ghali sono stati i precursori di questa nuova ondata riuscendo ad inserirsi in un panorama stantio che da troppo tempo non riusciva a trovare una degna evoluzione di se. Dopo i due artisti meneghini, sono venuti fuori rapper come Rkomi, autentico prediletto di nuova e vecchia scena rap,  EnzoDong, rapper napoletano che spesso ha fatto parlare di se per la sua presenza in “Gomorra” e per il controverso pezzo Higuain, e la contestatissima Dark Polo Gang, gruppo romano (quartiere Monti) che tra risse e linguaggi alieni si è guadagnata un posto rilevante nella difficile scena della capitale. Il regista di questo nuovo momento storico è Charlie Charles, beatmaker milanese in grado di conquistarsi in pochissimo tempo un posto di rilievo nella scena italiana. Vedremo nel prossimo anno in cosa si tramuterà quest’ondata e quali saranno le novità più succulente per il periodo (Grime?), buona musica a tutti!

•MIGLIOR ALBUM ITA

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“Uno su mille ce la fa” ma a volte nascono figli gemelli. In questo caso parliamo di gemelli eterozigoti, e diversissimi sotto ogni aspetto. Signori e Signore, siamo lieti di annunciarvi che il premio di miglior disco italiano dell’anno se lo aggiudicano in due: Thegiornalisti con Completamente Sold out e Salmo con HellvisBack.  Tommaso Paradiso ci ha fatto tornare un po’ liceali e nostalgici, ci ha spinto a essere meno choosy e cantare accendino alla mano. I Thegiornalisti si aggiudicano il premio perché ci hanno saputo ricordare la leggerezza che certe volte la musica ti deve dare. Salmo, dal canto suo, ha saputo portare ancora più in alto l’asticella qualitativa del rap italiano. Hellvisback appare tecnicamente ben fatto, impreziosito da collaborazioni altisonanti, liriche d’impatto e video musicali curati nel minimo dettaglio. Hellvisback si aggiudica il premio perché dimostra che “A long time ago in a galaxy far, far away…” la qualità paga. Sempre.

•MIGLIOR ALBUM MUSICA ELETTRONICA

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La musica elettronica nel 2016 è stata onnipresente, ha raggiunto elevati picchi stilistici e qualitativi ed è stata conosciuta anche da un numero maggiore di ascoltatori. Dopo lunghe ore di riflessioni e di meditazione zen è stato decretato Sirens come miglior lp elettronico. Nicolas Jaar, classe 1990, ha combattuto fino all’ultimo con Flume e James Blake ma ci ha saputo stupire. Nicolas ha creato un pout-pourrì di esperienze personali, attaccamento alla sua terra d’origine, e ricercatezza di suoni che ci ha colpito sin dal primo ascolto. Sirens si aggiudica il premio perché è prova che Jaar è dotato della capacità di innovare la sua musica e quella degli altri.

•PREMIO “DJ KHALED” PER LA FRIVOLEZZA

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(Nella foto il dottor Khaled ibn Abdul Khaled subito dopo esser stato contattato dalla nostra redazione della vittoria del premio).

Il premio Dj Khaled di quest’anno non poteva che andare allo stesso Dj Khaled. Major Key, tralasciando la copertina, è un signor disco, da molti frainteso e sottovalutato. Qui noi però andiamo a premiare proprio la copertina, gli snapchat in diretta della nascita del figlio, la linea di champagne deluxe e le ciabatte a fascia personalizzate. Semplicemente ICONIC

•EPILOGO

 Quando si va a fare una classifica o un catalogo, per quanto si voglia menzionare tutto si lascia sempre qualcosa fuori, ci teniamo però in ultimo a nominare alcuni dischi che uscendo a Dicembre giocoforza non sono potuti entrare in questo nostro florilegio. Awaken my love di Donald Glover e 4 your eyez only di J Cole sono due dischi di ampio respiro di cui avremo modo di parlare, allo stesso modo gli album di Ab-Soul e di Post Malone si sono rivelate delle liete sorprese. Ci scusiamo con noi stessi per la bella musica che ci siamo dimenticati. Per quest’anno è tutto, non possiamo che ringraziarvi per averci letto e ringraziarci a vicenda per il tempo che ci concediamo, un articolo è già pronto per Gennaio ma altri ne arriveranno. A presto.

La redazione di Thelonious. (®riproduzione riservata)

Qui sotto trovate la nostra Playlist con i pezzi che ci sono più piaciuti nel 2016.

Drop by drop.

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What’s this rain? This tiny, heavy rain splashing on my black coat and way up my collar, quickly cutting the air and hitting my bare skin. Rome wasn’t born in the rain. Rome’s a port city with no sea. There is no winter in Rome, only a long, sultry spring. He suddenly turns around, the bottle on his hand. He just had a quick sip, to satisfy his mouth rather than his body, thinking more about his breath rather than his thirst. He’s quick and shows no hint of hesitation: his wrist moves back and the water draws a semicircle upon the low ceiling, finally dropping on the heads of the first seven guys in the front row. I’m there. What’s this rain?

Life is made of rituals, catharsis, catastrophes.

I tend to keep this a secret, but I’m actually a fan of small concerts. The huge events, the stadiums, the backpacks left on the grass, the sun burning on your neck while you wait for the gates to be open, the hidden, warm, shitty beer, these things fascinate me, sure, but it’s the clubs that I love, the small venues, 80 bodies gathered in front of a stage, 80 bodies alone in the dark, vibrating as one. I love the intimacy of it all.

Christian Berishaj was raised in Detroit by his family of Albanian descent. His childhood was difficult, just like the city he lived in: complicated and doomed. Amidst this preadocescent mess, music is the answer, plain and saving. His parents had already divorced, and during one lazy afternoon, his father gave him an electric guitar. That’s how it began.

“Looking back on it I didn’t realize how ghetto Detroit was, but I felt like I was in my own world with music. People would be skipping school to smoke weed and do drugs. I would be skipping school to go record with my Pro Tools at home. I was always inspired to do music and get out of there and go to something bigger.”

While touring, for some months you have a specific routine that dictates your every single day, hour and breath. Soundcheck in the afternoon, bags packed within an hour after the concert, and so on. When you’re back to Detroit, you feel this void inside you, an unreasonable fear of a writer’s block. We should be able to fool ourselves in order to escape our anxieties. JMSN’s hair goes past his shoulders, his beard long enough to reach his chest, dark wires cover the square, white, shiny earthenware floor tiles. He washes his face and when he looks at the mirror, he’s someone else. JMSN self-baptized for the new record. It is.

To be fair, before that night I had some bias; I was listening to some of his songs during breakfast, and as I drank my coffee I was thinking about how difficult it must be to perform something this complex and with so many tracks live. I became even more skeptical  when I went down the venue’s stairs and glanced at the backstage: there I saw JMSN with his stripped-down band. It was a skeleton crew and my belief of a disappointing performance grew even stronger. The 90 minutes that followed proved me wrong.

 

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He goes on the small stage from one side, his back-up band finds its place just behind a crypt of sorts that unfolds like an arch towards the audience, the drums placed under a crystal chandelier, in a Wes Andersonesque symmetry. He walks among the audience and approaches the microphone, holding the stage like a pagan god, skinny and tall, hierathical, pale, lit by the lights pointed at the painted walls behind him.

It’s a slow start, transcendent and mesmerizing, then JMSN swiftly moves on to the groove of his biggest hits, like Addicted and Cruel Intentions, the dance-influenced RnB of Power and Waves, the reggae of Hypnotized, then on to soul music (Most of all) and playful songs like Funk Outta Here. Christian is just incredible, his singing is flawless, but apart from that, what’s truly impressive is how he relates to his music, transforming accordingly during his performance, the way he changes rhythm, how he holds his guitar during Street Sweeper, how he makes love to his art, with no interruptions, with no speeches, just music.

It’s all in the ending: ‘Bout it. It seems as if the bridge just before the chorus will go on forever, pushed to a non-reachable limit, the face transfigured by his hands, he’s dancing towards the drums, hunched over to grab a bottle of water. What’s this rain?

Lorenzo Mattei (®copyright)

Translated by Gabriele Lazzari.

 

 

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(Setlist)

Goccia a goccia.

 

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Cos’è questa pioggia? Queste fini e ispide gocce, veloci e oblique tagliano l’aria, s’infrangono sul mio nero, entrano sopra il bavero, bagnano la nuda pelle. Roma non è nata nella pioggia, Roma è città di porto senza un mare, Roma non è autunno, Roma è una lunga afosa primavera. Si gira di botto con la bottiglia che ha appena lasciato le labbra, un sorso breve più per la bocca che per il corpo, più per il fiato che per la sete. Il gesto è secco, veloce, il polso buttato all’indietro, l’acqua dipinge un semicerchio sul basso soffitto e cade sulle teste dei primi sette sotto il palco. Sono lì. Cos’è questa pioggia?

La nostra vita è fatta di riti, di catarsi, di catastrofi.

Sono un amante segreto dei piccoli concerti. Mi lascio trasportare dai grandi eventi, dagli stadi, dagli zaini buttati sul prato, dal sole che ti brucia sul collo aspettando l’apertura del cancello, dalle bottigliette nascoste di birra, calda ormai da far schifo. Io in realtà però adoro il club, adoro la sala piccola, 80 corpi raccolti sotto a un palco, 80 corpi soli al buio, 80 corpi che vibrano all’unisono, adoro l’intimità di quegli attimi.

Christian Berishaj è cresciuto a Detroit in una famiglia di origini albanesi, la sua infanzia è difficile come la sua città: complicata e già verso il declino. In tutto questo casino preadolescenziale la più banale e salvifica soluzione è la musica. Il padre, ormai già divorziato da sua madre, in un apatico pomeriggio gli regala una chitarra elettrica, l’inizio di tutto.

“Looking back on it I didn’t realize how ghetto Detroit was, but I felt like I was in my own world with music. People would be skipping school to smoke weed and do drugs. I would be skipping school to go record with my Pro Tools at home. I was always inspired to do music and get out of there and go to something bigger.”

Quando sei in tour per alcuni mesi vivi in una routine che scandisce il giorno, le ore, i respiri, hai sempre il soundcheck il pomeriggio, hai sempre le valige da fare un’ora dopo la fine del live. Quando torni a Detroit hai il vuoto, un’insensata paura di non riuscire più a creare. Dobbiamo riuscire ad ingannare noi stessi per sfuggire dalle nostre ansie. I capelli di JMSN arrivano sotto le spalle, la barba è lunga e tocca il petto, le maioliche quadrate, bianche e lucide del pavimento sono coperte dai fili bruni, l’acqua gli bagna il capo e il viso, quando si guarda allo specchio è un altro. JMSN si è battezzato per il nuovo disco. It is.

Prima di quella sera, devo esser sincero, ero molto prevenuto; la mattina prima di uscire di casa mentre facevo colazione ho ascoltato qualche canzone. Mentre sorseggiavo il caffè pensavo a come fosse arduo portare live dei progetti così complessi, delle canzoni con così tante tracce, i miei preconcetti si sono ampliati quando scendendo le scale del locale intravedo JMSN e la sua scarna band nel backstage, sono pochi e l’idea di un’esibizione al ribasso si fa più concreta. L’ora e mezza che è seguita ha spazzato via tutte le mie remore.

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Entra di lato sul piccolo palco, i musicisti che lo accompagnano sono messi poco dietro in un loculo che si apre con un arco verso il pubblico, la batteria è simmetrica sotto un lampadario di cristallo, come in un film di Wes Anderson. Passa tra il pubblico e si avvicina al microfono, tiene il palco come un dio pagano, magro e alto, ieratico, pallido, folgorato dalle luci che si infrangono alle sue spalle sulle pareti affrescate.

Si inizia lenti, trascendentali e storditi, repentinamente si passa al groove di JMSN, i singoli di maggior successo come Addicted e Cruel Intentions, l’RnB con influssi dance di  Power e Waves, il reggae di Hypnotized , il soul di Most of all e pezzi giocosi come Funk Outta Here. Christian sul palco è incredibile, canta in modo impeccabile, ma non è solo questo, è il modo con cui si relaziona con la sua musica ad essere eccezionale, il modo in cui la trasforma durante l’esibizione, come cambia il ritmo, come imbraccia la chitarra in Street sweeper, come fa all’amore con la sua arte, senza interruzioni, senza discorsi, solo musica.

Tutto questo è nel finale: ‘Bout it. Quando parte il bridge per il ritornello sembra non finire più, è esasperato per un tempo eterno, si trasfigura il volto con le mani, ballando ingobbito  va verso la batteria, si abbassa a prendere una bottiglia di acqua. Cos’è questa pioggia?

Lorenzo Mattei (®riproduzione riservata)

 

 

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(Setlist)